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Arte, Cinema, Visioni

Il Cinema verticale di Paolo Gioli

10 Dicembre 2019

Nel 1930, quando la comparsa del sonoro costrinse i tecnici a riconsiderare la dimensione dell’immagine, Sergei Eisenstein propose di ripensare il rettangolo. Nella sua lezione “Il quadrato dinamico” argomentò che il fotogramma 4:3 era stato ereditato dalla pittura accademica e dal palcoscenico in uso in Occidente e che non aveva la sua origine in natura. Mise pure in evidenza come l’Asia avesse una forte tradizione di opere d’arte a sviluppo verticale e in particolare i rotoli dipinti nella Cina e le xilografie giapponesi. La dimensione verticale – diceva – offriva altrettante possibilità creative del suo opposto.

Lo sforzo di Eisenstein per riportare la verticalità nel cinema è stato solo un tentativo a metà. Lui cercava un quadrato dinamico che garantisse ugual peso a tutt’e due gli assi.

Paolo Gioli è andato più in là. Nella sezione aurea del fotogramma a 16 mm, molti dei suoi film mostrano e esaltano la propensione verticale del congegno. Nel metodo, ci ricorda un periodo della storia del cinema in cui gli standard tecnici non erano ancora stati fissati. Nel corso di queste esplorazioni egli crea, attraverso la scansione strisciante della pellicola, nuove immagini di spazio, tempo e corporeità.

La cinepresa (stenopeica) eretta di Gioli prende letteralmente la misura del soggetto, come fosse un metro di legno per la misurazione dei tessuti. In Filmstenopeico (1973), ogni porzione di film presenta un tema dall’alto verso il basso catturandone la visione da 47 punti dello spazio, leggermente distanziati. In proiezione tuttavia esso produce l’effetto di uno sfarfallio spasmodico, con l’oggetto che si muove a scatti tirando il fondo del fotogramma. Il trascinamento dell’immagine verso il basso prodotto dalla cinepresa di Gioli tende a cancellare l’interlinea, consentendo di sottrarci al predominio del rettangolo fisso.

Se in Filmstenopeico ci son troppe poche interlinee, in compenso in Commutazioni con mutazione (1969) ci viene incontro un’ epidemia di strutture cellulari. Ancora una volta il movimento è soprattutto verticale. Ma appena le immagini rappresentate cominciano a muoversi verso la parte bassa del fotogramma lasciando vedere la colonna sonora che oscilla, perforazioni, graffi, grumi di colore, siamo costretti a prendere atto dell’arbitrarietà del rettangolo. Le interlinee e le perforazioni sono a volte inclinate alle estremità, quasi a creare un nuovo formato del fotogramma che rispetti il flusso del cinema verso il basso.

Ma il lavoro più completo di Gioli sul cinema verticale sembra essere Anonimatografo (1972). Da un film amatoriale di una famiglia dell’epoca del muto egli crea un affresco di un epoca esaltando particolari domestici informali e intimi. L’inquadratura introduce un film che si sviluppa attraverso varie forme di immagini doppie sia su fotogramma singolo che in movimento. Le immagini caleidoscopiche fanno pensare a un album fotografico o a diapositive stereoscopiche.

A un certo punto la verticalità sembra creare orizzontalità: due donne ad una festa sembrano clonarsi fino a invadere un’intera stanza. Verso la fine di Anonimatografo compare invece la verticalità suprema: una pioggia di graffi minuscoli che però non cancellano l’immagine (minuto 20:20)

Tutto il Cinema di Paolo Gioli è disponibile su The Film Club e nel box dedicato in edizione Rarovideo

Toro – Un’insolita storia di disperazione

8 Ottobre 2019

Non servono i colori per evocare delle immagini potenti.
Il regista Martin Hawie ne dà prova magistralmente con il suo lungometraggio Toro. 

La fotografia in bianco e nero di Toro narra la storia di due emarginati molto differenti tra loro. L’irascibile Toro e il sensibile Victor si guadagnano da vivere con la prostituzione, ma mentre Toro mette via dei risparmi per crearsi un futuro migliore, Victor si lascia cadere sempre di più nel vortice della droga. Quando si ritroverà coperto di debiti, Victor metterà a rischio la loro amicizia.

Inverno, edilizia popolare in Germania. È qui che due diversi emarginati stringono un’amicizia piuttosto insolita: Toro (25), irascibile quanto riservato e Victor (29), sensibile e instabile. Toro, il cui vero nome è Piotr, arrivò in Germania dieci anni fa e sviluppò la sua personale strategia di sopravvivenza. Per realizzare il suo sogno di aprire una scuola di pugilato in Polonia, si guadagna da vivere facendo l’escort, andando a letto con donne in stanze d’albergo o in case di quartieri medio-borghesi. Non è un lavoro facile, ma paga bene. Vuole portare Victor con sé per ricominciare una nuova vita lontano dalla povertà e dalla prostituzione.

Toro non è un film semplice ma gli amanti dei film sofisticati apprezzeranno i dettagli insoliti.

2015, Germania, Cinemascope, 84′ DVD Rarovideo

Disponibile anche in digitale su
CHILI, Amazon Prime Video e The Film Club

Teoria e pratica del cinema rivoluzionario

16 Settembre 2019

Godard, il collettivo Dziga Vertov e Le Vent d’est

Il maggio francese per Godard rappresenta la chiusura di una fase (la Nouvelle Vague ovvero il cinema borghese) e l’apertura di una nuova pagina, in cui l’autore singolo doveva necessariamente dissolversi in un autore collettivo o in un collettivo di autori (il gruppo Dziga Vertov, fondato insieme a Jean-Pierre Gorin), con l’obiettivo, come dirà lui stesso, di non fare film politici, bensì di fare politicamente dei film.

Le Vent d’est ( o Vento dell’Est dal momento che il film è girato in Italia) fa parte di questa nuova stagione, insieme a tutti i medio e lungometraggi realizzati tra il 1969 e il 1972.

Nel passaggio dall’Io al Noi, il cinema cambia radicalmente linguaggio, funzioni, obiettivi. Per certi versi sembra che tutto il cinema realizzato da Godard fino a quel momento dovesse preludere a quell’azzeramento totale in termini sia etici che estetici rappresentato da Le Vent d’Est

Il cinema abbandona la storia ( in senso diegetico, cronologico, storiografico) e si fa puro discorso, quasi una sorta di manifesto.

Cos’è dunque Le Vent d’est?

Un saggio per immagini sul come fare cinema politico, una riflessione sulla necessità che, non solo i contenuti ma anche la forma e, ancor prima, il processo produttivo, sia coerente con il soggetto trattato. Il cinema diventa dibattito collettivo in fieri sul cinema rivoluzionario del passato (Vertov, Ejzenstejn) e del presente. Molto più che semplice metacinema, Le Vent d’est ci mostra il cinema nel suo farsi, configurandosi al tempo stesso come analisi critica sul cinema da farsi.

L’anarchia che viene a crearsi sul set, trasforma la lavorazione in assemblea politica permanente, seduta di autocritica. Tutto ciò si riflette sulla struttura del film, costellato di azioni reiterate, concatenazioni di performance, scene di violenza e repressione, dove l’artificio della messa in scena serve a svelare la macchina cinema ( gli attori filmati mentre vengono truccati, la troupe che compare in campo).

Gian Maria Volonté, all’epoca sicuramente il “divo” italiano più politicamente impegnato, racconta molto bene il clima set: “Quando ho girato Le Vent d’est Godard si trovava in un momento della sua carriera in cui contestava se stesso, negava il ruolo del regista, sperimentava le possibilità di interazione tra i rapporti tradizioni di una troupe cinematografica e quella di un lavoro più collettivo. Insomma, c’era una grossa lotta nel suo interno, al punto che era disposto a lasciare la macchina da presa a chiunque la volesse“.

Le Vent d’Est di Godard
è in edizione DVD Rarovideo
e disponibile in digitale su
The Film Club e Amazon Prime Video

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